Il paesaggio mozzafiato davanti ai suoi occhi faceva passare in second'ordine qualunque problema quotidiano, riconciliando la sua più intima essenza di uomo con il mondo intero. Dalle alte rocce che sovrastavano Capo Katapola il cielo azzurrissimo sembrava formare un tutt'uno con le spumeggianti onde marine che si schiantavano qualche centinaio di metri più in basso contro la soffice spiaggia dell'isoletta greca, mentre il soffio leggero del melteni permeava l'aria di un vivificante odore di salmastro.
Remo Pancaldi chiuse gli occhi beato; non gli sembrava ancora vero di trovarsi proprio lì, in quella piccola e quasi sperduta isoletta delle Cicladi, la ventosa Amorgòs, pronto a godersi una magnifica vacanza fuori stagione e per di più spesata di tutto. Se non era fortuna questa!
Certo che ne aveva fatta di strada in pochi mesi, da quando era soltanto uno squattrinato investigatore privato chiuso nel suo "studio" romano in attesa del suo primo caso, costretto a fare i conti con il suo stomaco sempre in preda ai morsi della fame. Grazie all'ultimo caso che aveva risolto (che in realtà era anche l'unico) si era ritrovato in preda ad un'improvvisa notorietà che gli aveva fruttato valanghe di proposte da tutte le parti. Ripensò per l'ennesima volta al caso del dottor Crisci e alla sua affannosa ricerca di un cadavere che si divertiva ad apparirgli e a sparirgli continuamente proprio sotto il naso… Mah! Era tutto passato, adesso, e di quel caso gli restavano soltanto un discreto mucchietto di banconote e tante nuove conoscenze. E poi naturalmente c'era Sabrina, la sua Sabrina, il suo angelo in divisa che, oltre ad aiutarlo fattivamente in quel caso, gli aveva anche, suo malgrado, salvato la vita e rubato il possesso di quel muscolo che si trova all'incirca nella parte sinistra del torace e che viene comunemente chiamato cuore. Ah! Quella ragazza ne sapeva una più del diavolo e l'aveva stregato completamente, ormai.
Gli occhi di Remo saettarono dalla spiaggia sotto di lui all'orizzonte che congiungeva il cielo e il mare e che gli si stendeva davanti vuoto ed increspato. Ma quanto ci avrebbe messo quel benedetto traghetto ad arrivare? Sabrina era a bordo della nave e tra poco sarebbe stata lì con lui. Quelle benedette quattordici ore di navigazione che separavano il porto del Pireo da Amorgòs sembravano proprio interminabili.
Il giovanotto sospirò pesantemente e riandò pigramente con il pensiero alle circostanze del tutto fortuite che l'avevano condotto su quell'isoletta delle Cicladi. Circa un paio di settimane prima aveva ricevuto una lettera da un'accreditata agenzia di viaggi che lo pregava di essere presente, come addetto alla sicurezza, all'imminente inaugurazione di un nuovo villaggio turistico della catena Tulip Beach, dislocato per l'appunto nell'isoletta di Amorgòs, nel bel mezzo dell'Egeo, con tanto di spese pagate e con una parcella giornaliera che l'aveva reso gongolante. Non era possibile farsi sfuggire un'occasione del genere e così Remo si era affrettato a prepararsi per l'incarico che, in ogni caso, non si sarebbe prolungato oltre un paio di settimane. L'unica nota dolente di tutta la situazione era che Sabrina in quel momento (si era alla fine di maggio) non poteva chiedere un periodo di ferie; e così era dovuto partire solo, confortato però dalla promessa che la sua bella sarebbe venuta ben presto ad Amorgòs, fosse anche solo per un paio di giorni, prima della fine dell'incarico.
L'impatto con l'isoletta di Amorgòs era stato tonificante: all'inizio, dal traghetto, non era sembrata niente più di uno scoglio, affiorato dall'Egeo per qualche improvviso capriccio di Zeus, ma quando la nave aveva ormeggiato nel porto di Katapola la primitiva bellezza dell'isoletta l'aveva conquistato. Si era trovato davanti una miriade di strette stradine calcinate dal sole abbagliante e un insieme di casette bianche con le persiane azzurre che si protendevano verso una spiaggia ancora miracolosamente incontaminata e percorsa soltanto dai pescatori e dalle loro smisurate reti.
Accompagnato dall'onnipresente soffio del melteni, il vento caratteristico dell'Egeo, aveva camminato sulle stradine pavimentate a ciottoli e aveva innalzato lo sguardo sull'imponente Monte Krikelon che, dall'alto dei suoi ottocento metri, sembrava il guardiano della minuscola isoletta che, aveva poi appreso, era popolata da una popolazione che non superava le 400 anime. Certo adesso con l'inaugurazione del villaggio turistico della Tulip Beach, che si trovava a metà strada tra Katapola ed Egiali, le cose soprattutto in estate sarebbero probabilmente cambiate, e in peggio. Ci sarebbe stato il prevedibile assalto dei turisti, muniti di macchina fotografica e di windsurf, che avrebbe ben presto snaturato la vera essenza dell'isoletta; ma tant'è! Quella era una vecchia storia.
Remo, che aveva dovuto lasciare Petronilla, la sua fidata quattroruote, a Roma, era stato accolto al molo da un pulmino scalcinato, dipinto in un improbabile giallo canarino, e dal suo autista, un vecchio greco di nome Dimitros. La comunicazione si era svolta a gesti, dal momento che Remo non parlava una parola di greco (né di nessun'altra lingua straniera, in effetti) e Dimitros non mostrava il minimo interesse ad intavolare un qualunque tipo di conversazione, meno che mai in italiano. Il suo volto ieratico e solcato da una fittissima rete di rughe era atteggiato ad un'espressione di distaccato disinteresse. Si era diretto ciondolando verso Remo, che era poi l'unico passeggero sbarcato dal traghetto dell'Agapitos Lines (complice la bassa stagione); e, indicando se stesso, aveva pronunciato una sola parola: «Dimitros», appunto; e poi gli aveva indicato la dicitura sullo scalcinato pulmino che lo identificava come bus navetta del villaggio vacanze Tulip Beach, invitandolo a seguirlo con un gesto del tutto mediterraneo.
Beh, si era detto Remo a mo' di consolazione, in fondo siamo della stessa razza. Era salito subito dopo, come unico passeggero, sullo scricchiolante veicolo e, posata la valigia sul sedile accanto al suo, si era preparato a godersi il panorama. Cinque minuti dopo il panorama era il suo ultimo pensiero; il pulmino aveva cominciato ad affrontare sempre più spesso dei tornanti strettissimi e dotati di un fondo stradale particolarmente sconnesso che lo facevano sussultare impietosamente e il suo stomaco aveva iniziato a protestare vigorosamente, ma invano. Ben presto un sudore gelido gli aveva imperlato tutto il corpo e aveva sentito la nausea espandersi come una dilagante marea da dentro; aveva l'impressione che il Monte Krikelon che si affacciava ad ogni nuovo tornante gli promettesse implacabili vendette ed era ormai giunto all'estremo limite della battaglia con se stesso, al punto che non gli importava più di nulla, nemmeno di sporcare il suo miglior paio di pantaloni di gabardine e di sotterrare per sempre la sua dignità virile, quando il pulmino, dopo un lacerante stridio, si era fermato di botto.
Remo, a quel punto, non si era preoccupato di sapere dove fossero giunti dopo quel giro panoramico da incubo ma, sotto gli occhi divertiti di Dimitros e seguìto dal ghigno alquanto sdentato del vecchio greco, si era precipitato fuori dall'infernale veicolo ed era riuscito ad evitare il peggio solo per un soffio, grazie alla tonificante aria salmastra. E meno male, perché davanti a lui si trovava il direttore del Tulip Beach in persona, il signor Kanakis, che lo fissava con aria interrogativa. Cercando di recuperare almeno qualche brandello della dignità perduta, Pancaldi gli si era fatto incontro, inalberando uno smagliante sorriso che avrebbe prodotto maggiore effetto se il colore della sua pelle non fosse stato in quel momento di un brillante verde alga.
Fortunatamente Kanakis parlava un italiano quasi perfetto e, stringendogli vigorosamente la mano (cosa questa che aveva nuovamente accentuato il pericoloso rollìo del suo stomaco), lo aveva invitato a seguirlo per illustrargli la disposizione del villaggio turistico e per chiarirgli ulteriormente le sue mansioni.
Il Tulip Beach si trovava in una splendida posizione panoramica, a metà strada tra il Monte Krikelon e la spiaggia di Katapola, ed era organizzato in un corpo centrale, con la hall, il ristorante, la discoteca e il bar e in un insieme di bungalow, che permettevano agli ospiti di godere dello stupendo panorama, mantenendo una certa privacy. Il complesso turistico era inoltre fornito di un'enorme piscina, di un campo da tennis e di uno di golf. Infine, per coloro che non rinunciavano ai tuffi nell'Egeo, c'era il pulmino giallo canarino che faceva da spola tra il complesso alberghiero e la spiaggia di Katapola. Era insomma uno dei sempre più numerosi villaggi vacanze in cui l'ospite di turno regrediva allo stadio prescolare e si faceva accompagnare mano manina dovunque suggerisse l'estro dei terribili animatori. E le chiamavano pure vacanze! Mah, non era compito suo giudicare come i poveri polli dei turisti volessero farsi spennare; quello per lui era lavoro e basta, almeno finché Sabrina, la sua sirena, non fosse arrivata nell'isola.
Intanto doveva occuparsi con il suo occhio per così dire "esperto" delle misure di sicurezza di cui disponeva il villaggio e dare il suo giudizio su tutto quello che era da migliorare. Così, con quello che si augurava fosse un atteggiamento altamente professionale, si era dato da fare per ispezionare le misure anti-incendio e per organizzare alcune dimostrazioni di esercitazioni d'emergenza, nel caso di improbabili tifoni, trombe d'aria, terremoti, maremoti e cataclismi, oltre naturalmente a tenere gli occhi aperti nell'improbabile caso che qualche malintenzionato si aggirasse nei dintorni.
Nel corso delle sue ispezioni aveva fatto conoscenza con la ventina di ospiti che soggiornavano già nel villaggio turistico appena inaugurato e con il personale di servizio. Aveva così potuto appurare che gli ospiti costituivano un interessante campionario della fauna umana e che il personale di servizio, sempre con il sorriso sulle labbra, faceva tutto il possibile per riverire convenientemente la clientela, sotto gli occhi di falco del signor Kanakis, salvo a ridere dietro le spalle dei loro particolari ospiti. E ne avevano ben ragione! In particolare alcuni di loro sembravano appena usciti da quello che appariva come un insieme tra uno zoo e un nosocomio per anziani, e poco o nulla faceva pensare che quel villaggio vacanze avrebbe dovuto ospitare prima o poi soprattutto giovanotti alti e muscolosi e ragazze stile top-model (questa era almeno la speranza del direttore). In quel momento gli ospiti erano quasi tutti di nazionalità italiana e francese e così Remo si trovò nella necessità di intavolare ogni tanto delle barbose conversazioni con i vari ospiti di lingua italiana che ritenevano, secondo qualche perverso diritto, di poter disporre liberamente di lui, così come della piscina o del campo di golf. C'era tra gli altri una coppia di sorelle zitelle di mezza età, che vivevano di rendita e che sembravano intenzionate ad approfittarsi dei primi pantaloni disponibili (Remo aveva già dovuto attuare diverse ritirate strategiche al loro apparire); infatti, nonostante l'aspetto innocuo, Romilda e Benedetta Carcioli di Cosenza gli erano sembrate, da quel punto di vista, quasi letali.
C'era poi la signora Maradani di Lucca che era appassionata di cinema e che si trascinava dietro un figlio di vent'anni senza spina dorsale e senza interessi; e poi c'era una coppia di fratello e sorella di mezz'età, i signori Titti, entrambi scapoli, di un paesino in provincia di Trento al primo viaggio all'estero.
La presenza di una coppia in luna di miele Remo l'aveva intuito solo dopo un po', in quanto i due sposini si facevano vedere in giro a mala pena all'ora dei pasti; per i due, se avessero ulteriormente continuato nelle abitudini iniziali, Remo aveva previsto (da addetto alla sicurezza!) un collasso cardiocircolatorio o un crollo da sfinimento: ma in questo non avrebbe proprio saputo come …intervenire!
C'era anche una chiassosa comitiva di insegnanti francesi in pensione con le famiglie che occupava tutta una zona dei bungalow e che, dopo aver compreso che Remo non spiaccicava una parola della loro lingua eletta, l'avevano lasciato da parte. E poi c'era la sua croce e delizia: il colonnello a riposo Aldobrandi di Roma, un energico vegliardo dritto come un fuso che, dal momento che Remo, nella qualità di investigatore privato e di addetto alla sicurezza del complesso, era per lui pur sempre una specie di militare senza divisa, avendolo disgraziatamente preso in simpatia, si era messo a tormentarlo raccontandogli sempre nuove e arricchite versioni delle sue eroiche campagne di guerra in mezzo mondo, durante la seconda guerra mondiale.
Ormai Remo era diventato la sua vittima predestinata; ogni volta che il colonnello lo vedeva in lontananza, ogni suo tentativo di defilarsi risultava vano. Il prode colonnello, infatti, nonostante i suoi ottantadue anni di età, partiva al suo inseguimento e, grazie al validissimo aiuto di un insospettabile compagno, piombava su di lui come un falco e iniziava a raccontargli le sue eroiche imprese!
Già, il "compagno" del colonnello Aldobrandi: Remo ne era ossessionato; si sentiva sempre nelle orecchie il grido di: «Prendilo Cavour, prendilo; non fartelo scappare!». E, immancabilmente, Cavour correva a perdifiato e lo scovava in un battibaleno! Remo si sentiva sempre di più simile a una lepre, a una pernice e a volte anche a un bastoncino da riporto. Sì, perché colui che rispondeva all'altisonante nome di Cavour era un quadrupede e apparteneva per puro caso alla razza canina e in particolare ad una razza non meglio identificata; era una specie di incrocio tra un bassotto e un setter, ma con un pelo riccio e fluente, di un caldo color mogano e con degli occhi marroni che sembravano scrutarti fin dentro l'anima. Questo confuso esemplare della razza canina, però, aveva un modo a dir poco inconsueto di manifestare la sua simpatia agli umani (e disgraziatamente aveva molta simpatia per Remo): infatti, per qualche misteriosa ragione insita nell'insondabile psiche canina, appena trovato un soggetto di suo gradimento, alzava la zampetta e dava sfogo ai suoi bisogni idraulici, inondando la disgraziata vittima! E così, già dopo il loro primo incontro, Pancaldi cercava di tenersi alla larga dall'eccentrico quadrupede, dal momento che aveva, per così dire, già ricevuto il suo "battesimo del fuoco"; il suo desiderio era maggiormente rafforzato dal pericolo incombente di cadere nelle grinfie del logorroico colonnello. La strana coppia umano-canina lo trovava purtroppo di suo gradimento e Remo, nonostante il continuo accorciarsi dei suoi pantaloni e il continuo, suo malgrado, accrescersi delle sue nozioni sulle tattiche belliche della grande guerra, troppo spesso non riusciva ad avere scampo.
Era così passata la prima settimana ad Amorgòs, quando gli era giunta una notizia che gli aveva risollevato il morale, oltre che l'orlo dei pantaloni, ristretti dai continui lavaggi: Sabrina era riuscita a strappare al terribile commissario Brighini un'intera settimana di ferie e ben presto sarebbe arrivata!
E adesso si trovava lì, appena sopra Capo Katapola, ad aspettare l'arrivo del traghetto e della sua fata; ma quando sarebbe arrivato quel maledetto traghetto?
All'improvviso risuonò un grido che gli fece accapponare la pelle: «Prendilo, Cavour, prendilo; non fartelo scappare!».
Non ebbe bisogno di girarsi per sapere che il colonnello Aldobrandi e il suo inseparabile quadrupede stavano arrivando: era senza scampo! E pensare che, fino ad un attimo prima, sembrava una così bella giornata! Si appollaiò su un muretto vicino, nel tentativo si salvare i pantaloni lavati di fresco e attese il suo iniquo destino. Di quale campagna militare avrebbero parlato oggi?
Il colonnello Aldobrandi si avvicinava velocemente, a dispetto della sua età, con la chioma candida che svolazzava allegramente a causa del melteni, seguito dal suo fedele Cavour che, alla vista di Remo, si slanciò giocosamente in avanti, felice di aver incontrato un amico da "onorare" con il suo personale tributo. Pancaldi era però fuori portata e Cavour dovette accontentarsi di lasciare il suo segno soltanto sul muretto di pietra su cui si trovava acciambellato il previdente giovanotto. Dopo questa importante operazione, il cane si accoccolò vicino al muretto, scodinzolando e abbaiando alle onde spumeggianti che si abbattevano in basso.
Nel frattempo anche il colonnello Aldobrandi aveva raggiunto Remo e gli si era rivolto con una strizzatina d'occhio: «Eh, mio caro giovanotto! E' qui ad aspettare la sua bella? Ormai il traghetto dovrebbe essere prossimo all'arrivo; tra poco ne vedremo sicuramente la sagoma. Ah! Anch'io ai miei tempi… Sapesse quante avventure potrei raccontarle… Ma un vero gentiluomo preferisce tacere su questi particolari, non è vero amico mio? Invece è meglio godersi quest'aria e questo mare di sogno; mi fanno ridere questi pusillanimi di oggi che si accontentano di fare il bagno in quell'enorme tinozza che chiamano piscina! Io il bagno lo faccio solo tra le dolci acque dell'Egeo, proprio come un vero uomo! Anzi, voglio chiedere a Kanakis se c'è modo di avere lezioni di surf; lo sapeva che con questo magnifico vento, il melteni mi pare che lo chiamino, l'isola è famosa proprio per i patiti di windsurf? E non mi guardi con quell'aria scandalizzata! Solo perché ho superato le ottantadue primavere lei crede che dovrei fermarmi e guardare la vita che mi passa davanti? Io ho ancora un mucchio di cose da fare e ho intenzione di farle tutte. Certo, un minimo di prudenza si impone; io, ad esempio, non faccio mai il bagno a stomaco pieno. Eh, si! La prudenza è una grande maestra e non si arriva alla mia età senza darle il giusto peso. A questo proposito, ricordo ancora perfettamente…».
Remo alzò sconsolato gli occhi al cielo: ci siamo, pensò, adesso ricomincia con le sue elucubrazioni. Che diavolo posso fare per svignarmela?
Ma il colonnello continuava beato a snocciolare episodi della sua trascorsa vita militare, senza tenere in alcun conto l'atteggiamento sempre più sfuggente del disgraziato giovanotto; anzi Remo era costretto a seguirlo con attenzione, perché il terribile vegliardo aveva l'abitudine di interrompersi nel bel mezzo delle sue divagazioni per chiedergli il suo parere su questo o quel particolare. Adesso, per esempio, stava declamando: «Era il dicembre del 1942 e noi eravamo nel bacino del Don, dopo essere partiti da casa da oltre sei mesi. Il freddo era polare, al di là di ogni immaginazione; durante la notte si raggiungevano facilmente i trenta gradi sottozero e parecchi di noi morivano congelati. Non si poteva dormire, perché appena si chiudevano gli occhi era finita: il ghiaccio ti ghermiva ed eri morto. Eravamo costretti a fare i turni di guardia per poter riposare un po'; ci mettevamo in gruppi di cinque o di sei e dopo esserci stretti gli uni agli altri ci appisolavamo, mentre uno di noi, a turno, vegliava sugli altri».
Fece una pausa. «Furono giorni terribili, quelli. Noi della divisione Pasubio, come del resto anche i compagni delle altre divisioni, eravamo equipaggiati malissimo e guidati anche peggio. Ogni giorno si avanzava faticosamente, lottando centimetro dopo centimetro, in un inferno di ghiaccio e di freddo, con le scarpe di cartone e i fucili difettosi, pensando alle famiglie lontane, all'Italia e chiedendosi: perché? Poi, poco prima di Natale, ci trovammo di fronte l'Armata rossa e iniziò una terribile battaglia di logoramento. La nostra difesa cominciò a vacillare, ma la notte del 24 dicembre, in mezzo ad una terribile tempesta di neve, io, che all'epoca ero sottotenente, riuscii a rompere l'accerchiamento dei russi e con i miei soldati mi diressi verso le linee amiche a Skassirskaia. Noi ce la facemmo, ma migliaia dei nostri rimasero nella sacca, a morire circondati dai nemici e disprezzati dagli alleati tedeschi. Eh, ragazzo mio, che inutile spreco di vite umane!».
Il vecchio sembrò riscuotersi improvvisamente, come se l'enfasi del suo racconto l'avesse di nuovo riportato lì, nel bacino del Don, a rivedere i fantasmi dei suoi compagni caduti… Poi un'espressione arguta gli solcò il viso avvizzito; si rivolse a Remo e porgendogli una vecchia e malconcia fotografia in bianco e nero che aveva estratto dal portafoglio, gli disse: «Vedo che non mi dà credito, giovanotto; mi vede vecchio e inerme. Crede che i miei siano solo i vaneggiamenti di un povero vecchio; ma io non sono sempre stato così; guardi com'ero cinquant'anni fa. Niente male, non crede?».
Pancaldi prese la foto con mani malferme; anche se in quel momento si trovava in una sorta di paradiso terrestre, circondato dal mare e dal cielo azzurro e riscaldato da un sole abbacinante, gli eventi narrati dall'anziano soldato lo avevano scosso più di quanto fosse disposto ad ammettere perfino con se stesso; quella era una tragedia che si andava ad aggiungere a mille altre, orchestrate incoscientemente da coloro che governavano, sempre troppe lontani per poter vedere le conseguenze delle loro disgraziate decisioni. La foto, ingiallita e malridotta, mostrava un bel giovanotto biondo, in divisa da sottotenente del Regio Esercito Italiano, mentre guardava l'obiettivo con aria sicura e sorridente.
Il colonnello aveva ripreso a parlare: «Come vede, sono stato giovane anch'io. Ah, quanti ricordi! Ad esempio…».
Remo fu salvato da ulteriori divagazioni dalla sirena del traghetto che annunciava il suo arrivo in porto. Benedicendo il suo fato, una volta tanto fausto, e sempre più impaziente di rivedere Sabrina, il giovanotto troncò la parola al colonnello e, scavalcando abilmente Cavour che cercava di salutarlo a modo suo, si diresse velocemente verso il molo, infilando meccanicamente la foto in tasca e dicendo al suo logorroico interlocutore: «Me lo racconterà la prossima volta, colonnello».
Aldobrandi sorrise tra sé e disse a Cavour: «Ah, amico mio, che bella cosa la gioventù!».
Remo divorava le poche centinaia di metri che lo separavano dall'approdo; finalmente quel benedetto traghetto stava per ormeggiare e tra pochi istanti avrebbe rivisto Sabrina! Gli sembrava che fossero passati secoli dall'ultima volta che l'aveva abbracciata. Il ricordo del suo corpo flessuoso e della sua cascata di capelli biondissimi gli faceva palpitare il cuore, per non parlare del suo esuberante cervello che più di una volta lo aveva tratto fuori dai guai. Eh sì, quella ragazza era fatta proprio per lui! Peccato che lei nicchiasse ancora e che facesse orecchie da mercante ogni volta che lui proponeva di regolarizzare la loro posizione. Anche se ormai abitava con lei dalla conclusione del caso Crisci, sentiva il bisogno di legalizzare la loro unione, anche per non dover più subire le occhiatacce di assoluta disapprovazione della portinaia del suo studio in Piazza di Pasquino, che più di una volta l'aveva accusato senza mezzi termini di vivere nel "peccato"!
Finalmente le operazioni di attracco si erano concluse e la passerella era stata calata. Qualche attimo dopo una familiare cascata di capelli biondi colpì l'attenzione di Remo e Sabrina, inguainata in un paio di ridottissimi shorts, scese dalla passerella e si diresse sorridendo verso il giovanotto che sembrava essersi pietrificato alla vista di tutto quel bendidio.
All'improvviso Remo ritrovò la voce e le capacità motorie e si precipitò a stritolare la ragazza in un abbraccio da orso.
«Piano, piano, Remo; così mi spezzi le ossa! Anche a me sei mancato maledettamente, sai?».
Il pomo d'Adamo del giovanotto andò furiosamente su e giù e finalmente si udì la sua voce strozzata dall'emozione: «Oh, Sabrina! Mi sembra un secolo che non ti vedo! Ma vieni, voglio farti vedere le bellezze dell'isola; è un posto magnifico, sai?».
«Aspetta, Remo, devo recuperare i bagagli; e poi voglio presentarti Giulio».
Le antenne di Pancaldi vibrarono pericolosamente; chi cavolo era questo Giulio? Gli era sembrato che la voce di Sabrina si addolcisse mentre pronunciava quel nome.
Intanto la ragazza si era diretta verso un ragazzo allampanato che la fissava con aria adorante e che reggeva con visibile fatica la valigia più mastodontica che Pancaldi avesse mai visto. Vederlo e provare per lui un'assoluta e irrazionale antipatia fu tutt'uno per Remo.
«Ecco Remo, ti presento Giulio Ansaldi; abbiamo fatto il viaggio insieme e mi ha aiutato con la valigia. E' qui in viaggio di istruzione; pensa che parla perfettamente il greco!».
La voce di Ansaldi, che era diventato rosso fino alle orecchie, si fece sentire con uno sgradevole timbro metallico: «Ma è stato un piacere, Sabrina; sa che sono a sua disposizione!».
L'antipatia di Remo per Ansaldi si faceva ogni attimo più violenta e feroce; gli si rivolse sgarbatamente, strappandogli letteralmente di mano il valigione che doveva pesare non meno di trenta chili: «Grazie, Ansaldi, ma adesso ci penso io a Sabrina!».
Trascinando furiosamente il maledetto valigione con una mano e la ragazza con l'altra, Remo si diresse verso una delle carrozze per turisti che si trovavano nella piazza e, dopo aver issato i "bagagli" di Sabrina, ve la fece accomodare e le chiese, cercando di calmare l'attacco di gelosia omicida che l'aveva pervaso: «Ti va di fare un giro panoramico, prima di andare in albergo?».
E al cenno di assenso della ragazza, proseguì: «Ma non dobbiamo stare qui solo una settimana? Che c'è dentro questa valigia? Tutta Roma?».
«Calmati, Remo; lo sai che una donna ha bisogno di tante cose; ti assicuro che ho portato con me solo l'indispensabile!».
E meno male! Figurarsi se si fosse portata dietro qualche extra!
Mentre la carrozzella si muoveva, Remo vide scendere dal traghetto un terzo passeggero; un tipo alto, con una barba luciferina, vestito di nero e con un'espressione arcigna.
«Chi è quello, Sabrina?».
«Ah, già, il signor Mistero! L'ho chiamato così perché ha spiccicato sì e no dieci parole nelle ultime quattordici ore. E' più abbottonato di un riccio, quello! So solo che è italiano e che si chiama Nicolazzi. E' tutto quello che sono riuscita a sapere».
E, provenendo da Sabrina, ben nota per le sue capacità persuasive e per la sua simpatia dirompente, queste parole erano già un programma! Chissà cosa nascondeva quello strano tipo? Qual era il motivo di tanta riservatezza? Remo continuò a guardarlo, mentre la carrozzella si allontanava lentamente verso i tornanti del monte Krikelon; chissà perché la sua presenza gli dava una sensazione di malaugurio. Mah!
Un paio d'ore dopo il giro turistico in carrozzella era giunto al termine e, mentre cadevano le prime ombre della sera, Remo si sentiva nuovamente rasserenato e in pace con il mondo intero. Mentre faceva scendere Sabrina dalla carrozzella e le illustrava le particolarità del Tulip Beach, all'entrata del quale erano appena giunti, le diceva: «Come vedi, mia cara, è un vero paradiso terrestre; niente traffico, niente smog, niente rumori, niente stress! In questo angolo di mondo nessun problema ci può turbare!».
Come a fare da contrappunto a quest'ultima osservazione si udì improvviso il lamentoso ululato di un cane. Remo sentì i capelli rizzarglisi in testa; quell'ululato era troppo angosciante: doveva essere accaduto qualcosa. Seguendo, insieme a Sabrina, l'origine dell'ululato si diresse verso la piscina che cominciava ad ammantarsi di oscurità. L'ululato era sempre più vicino e sempre più disperato. Ad un tratto Cavour sbucò davanti ai loro piedi, continuando ad ululare disperatamente. Remo, sempre più preoccupato, si diresse verso la piscina: al centro di essa si trovava un corpo che galleggiava a faccia in giù. Dall'atteggiamento globale del corpo era chiaro che si trattava ormai di un cadavere.
Nella luce sempre più incerta del crepuscolo si distingueva la candida chioma del colonnello Aldobrandi fluttuare in quella che lui stesso, poche ore prima, aveva definito "tinozza per pusillanimi". E così, tutto sommato, il colonnello non gli avrebbe più raccontato il seguito della sua sfortunata campagna militare in Russia.
Remo si passò la mano sugli occhi, mentre Sabrina emetteva un urlo strozzato e Cavour gli si strofinava addosso in cerca di protezione.
E così si era sbagliato: suo malgrado i problemi l'avevano seguito anche in quel piccolo lembo di paradiso terrestre.