Lo sferragliare del motore della mia vecchia Micra color ciclamino faceva da contrappunto, in quella canicolare giornata di metà agosto, al mal di denti più agghiacciante che avessi mai avuto la disgrazia di dover sopportare nei miei trent'anni di vita. E proprio a causa di quell'improvviso e insopportabile mal di denti mi trovavo in quel momento ad attraversare le strade assolate e deserte del centro di una Palermo più desolata che mai.
Appena poche ore prima, al mio risveglio, la giornata mi si snodava davanti senza particolari problemi, a parte la temperatura veramente insopportabile (quasi 40 gradi) e la consapevolezza dell'insolita solitudine e del silenzio che grondava letteralmente dalle mura della casa, abituata invece da anni a un cacofonico risveglio formato da pianti, capricci, scalpiccii di passi affrettati e porte sbattute. Mi trovavo, infatti, per pochi giorni soltanto, nell'invidiabile posizione di single, con i bambini (due pesti di sette e nove anni) in colonia al mare, e mio marito Marco fuori città per lavoro, a svolgere l'ultimo incarico prima delle sospiratissime ferie.
Per spezzare il silenzio che di minuto in minuto diventava sempre più insopportabile (perfino quei maleducati dei vicini erano partiti la settimana prima), avevo deciso di fare colazione con la compagnia della radio, sperando che magari un po' di buona musica avrebbe alleviato l'inizio di un attacco di depressione in piena regola. Niente da fare, ero incappata in uno dei consueti bollettini di guerra del “gazzettino di Sicilia” (come da noi continuava a chiamarsi il giornale radio regionale) che quella mattina aveva una notizia parecchio ghiotta: durante la notte era stato svaligiato il caveau della sede del Banco di Sicilia, in barba a ogni tipo di allarmi e a tutte le misure di sicurezza.
Il furto, a quanto pare, era di entità considerevole, perché non erano stati portate via soltanto valori e banconote, che pure dovevano risultare una somma considerevole, ma erano state anche aperte tutte le cassette di sicurezza del sotterraneo, con un danno non facilmente accertabile. Seguiva la solita tiritera: gli inquirenti (quei pochi che erano in servizio in quei giorni che precedevano il Ferragosto) stavano vagliando tutte le ipotesi e cercando il basista che aveva permesso ai ladri di superare tutti i segnali d'allarme, andandosene via indisturbati, pare addirittura con tanto di camion per trasportare in piena notte il frutto del loro lavoro.
Mah, pensai con filosofia, soldi che vanno, soldi che vengono. Più che altro, a casa mia, i soldi vanno via e basta. Spesso non era facile tirare avanti onestamente con due bambini e il solo stipendio di mio marito, ma tanto valeva abituarsi: grazie alla nostra classe politica che succhiava ogni linfa vitale, applicando indiscriminatamente nuove e fantasiosissime tasse a ogni nuovo sorgere del sole e senza alcuna reale possibilità di un lavoro decente per me che non possedevo nessun tipo di “padrino”, in uno stato sempre più dedito al nepotismo e al menefreghismo, c'era ben poco da sperare.
Ma che mi succedeva stamattina? Forse la solitudine mi aveva dato alla testa e mi ritrovavo con il dente avvelenato, pensai addentando una fetta biscottata. Ahi! Accidenti non l'avessi mai fatto! Altro che dente avvelenato! Senza alcun preavviso e con un dolore lancinante l'otturazione del mio canino inferiore destro si era staccata in un sol pezzo, mettendo forse allo scoperto, dato il dolore martellante che sembrava irradiarsi da tutte le terminazioni nervose, una delicata porzione di nervo.
Accidenti, questo non ci voleva! E adesso che faccio? Mi girai inebetita e rimasi a fissare le mattonelle della cucina, come se i loro disegni floreali potessero darmi una risposta esauriente. In pieno agosto, con la città completamente spopolata, con i negozi chiusi, le farmacie abbandonate, i medici emigrati lungo le coste dell'intera nazione, dove cavolo potevo trovare un dentista? Non bisogna abbattersi, mi ammonii, comincerò a cercare sull'elenco telefonico: in fondo ci sarà pure qualche anima pia che lavora anche ad agosto!
Una ventina di telefonate e un numero imprecisato di bestemmie dopo, dovetti giungere alla conclusione che non c'era nessuna anima pia che lavorasse a ridosso del ferragosto: senza dubbio era il momento adatto per morire senza che nessuno se ne accorgesse! Solo che non potevo darmi per vinta: il dolore martellante che scaturiva dal canino e che comprendeva ormai anche la zona circostante l'occhio e l'orecchio destro non mi permetteva cedimenti; dovevo trovare un dentista e al più presto. Continuai a scartabellare l'elenco telefonico, sempre più inviperita contro tutto e tutti, cominciando anche a cercare dentisti i cui indirizzi erano sempre più lontani dalla mia zona di residenza, disposta a raggiungere anche l'altro capo di Palermo, pur di mettere fine a quella sofferenza.
Finalmente tanta insistenza fu premiata: dopo un numero imprecisato di squilli mi rispose una voce d'uomo che, con tono arrogante, mi chiese cosa desiderassi. Io, in quel momento, non sapevo nemmeno con chi ero finalmente riuscita a parlare: avevo composto tanti di quei numeri che ormai non mi raccapezzavo più e inoltre il dolore non mi dava tregua; cercai comunque di rispondere con coerenza e cortesia, dote che senz'altro mancava al mio interlocutore.
«Buongiorno, sono la signora Ippoliti. Avrei bisogno di una visita urgente: temo che sia saltata l'otturazione da un dente e il dolore è davvero lancinante. Mi rendo conto di non essere una sua cliente abituale, ma il mio dentista è in ferie e io ho assoluto bisogno almeno di una medicazione. La prego, potrebbe fissarmi un appuntamento per oggi stesso?».
«Cara signora - almeno aveva assunto un tono più “cristiano” - è per pura combinazione che mi trovo nel mio studio; vede, anche io da oggi sono in ferie ed ero passato a ritirare dei documenti. Non vedo, quindi, come posso aiutarla…».
Non gli permisi di finire la frase: era l'unico dentista con cui ero riuscita a parlare in tutta la mattinata e probabilmente anche l'ultimo esemplare della sua specie rimasto in città; inoltre un'occhiata all'orologio mi informò che erano già le tre passate; avevo trascorso tutto quel tempo nel tentativo di rintracciarne uno e adesso che l'avevo trovato non me lo sarei certo lasciato sfuggire, ferie o non ferie.
«La prego, dottore, come le ho già detto si tratta di un'emergenza. Una piccola medicazione non le porterà via molto tempo. Per favore…».
Un sospiro di resa all'altro capo del filo mi comunicò che avevo vinto: «Eh va bene, cara signora; ma venga subito, perché tra un paio d'ore dovrò lasciare la città, mi raccomando».
«Oh, mi muovo subito, sarò da lei a minuti. Il suo studio è…».
«Il mio studio si trova in piazza Bologni, al n. 10. Allora l'aspetto. Suoni al citofono, non c'è portineria. Ricordi, dottor Marsala. Buongiorno».
Uff! E anche questa era fatta! Certo da via Monte San Calogero a piazza Bologni, in pieno centro cittadino, di strada ce n'era, ma a quell'ora e in quel periodo dell'anno sarebbe stato uno scherzo arrivarci.
Pregando che la mia Micra non mi lasciasse appiedata (era parecchio che avrei dovuto portarla dal meccanico per un controllo…), incrociai le dita e girai la chiave: al terzo tentativo il fedele strombettare del motore mi avvertì che anche per questa volta era fatta, e nel giro di qualche secondo la mia “Maserati” formato scatoletta di sardine si immetteva lungo le vie deserte e arroventate di Palermo.
Mentre giravo sulla via Libertà, una volta tanto tutta per me, e percorrevo il lungo viale alberato, zaffate di aria bollente entravano dai finestrini accrescendo il mio disagio: sembrava proprio di stare in una sauna. Presto mi ritrovai in via Ruggero Settimo, anch'essa praticamente deserta e con i negozi quasi tutti chiusi per ferie, e di lì in via Maqueda: ero ormai in pieno centro cittadino e i vecchi palazzi che costeggiavano la via apparivano ancora più abbandonati e squallidi in quel clima di desolazione che da sempre hanno le città in piena estate. Proseguendo per piazza Vigliena (i Quattro Canti cittadini) pensai con tristezza al degrado cui si stava riducendo senza rimedio tutto il patrimonio artistico del capoluogo siciliano; e dire che di bellezze architettoniche la città ne vantava davvero tante! Peccato, un ulteriore ed evidente segno del malessere sociale che permeava ancor di più dall'ultimo dopoguerra l'Italia e la Sicilia in particolare, vista da sempre come una regione di frontiera da spogliare di tutto il possibile e da lasciare poi velocemente al suo destino.
Mi trovavo ormai in corso Vittorio Emanuele e, proprio mentre stavo svoltando verso piazza Bologni per parcheggiare, un nuovo riacutizzarsi del mal di denti mi convinse ad affrettarmi il più possibile. Piazza Bologni, un rettangolo di palazzi nobiliari che incorniciano la pregevole statua di Carlo V, il re sui cui possedimenti non tramontava mai il sole, era a quell'ora assolutamente deserta. La farmacia, le due trattorie e perfino l'autoscuola che vi si affacciavano avevano i battenti serrati per le immancabili ferie, e il parcheggio al centro della piazza, di solito strapieno di auto, era quasi del tutto vuoto. Parcheggiare la mia auto non comportò quindi alcun problema. Adesso si trattava di vedere quale di quei palazzi aveva il portone al n. 10.
Il palazzo a sinistra della statua era da escludere a priori perché non si trattava evidentemente di una casa privata, dal momento che sul portone stazionavano agenti in divisa; infatti il cartello affisso sul portone avvertiva che quella era la sede del Tribunale Militare. Quello a destra era il più pomposo di tutti, con nervature e puttini di chiara impronta settecentesca, e aveva un'aria del tutto ufficiale, convalidata da una targa che avvertiva che l'eroe Giuseppe Garibaldi vi aveva riposato le sue stanche membra per due ore! Non restava, quindi, che il palazzo dietro la statua di Carlo V, che poi era anche la costruzione ridotta più a malpartito rispetto alle due precedenti. Mi avvicinai al portone e rimasi a guardare il palazzo, senza alcun dubbio anch'esso nobiliare e di epoca settecentesca, con l'immancabile balcone con putti sopra la porta principale, ma in evidente stato d'abbandono, almeno per quanto riguardava l'esterno. Ma alcuni particolari, come le serrande blindate e un videocitofono ultimo modello, lasciavano intuire che il palazzo era abitato e che doveva anche essere stato restaurato all'interno, almeno quel tanto che bastava per non farlo cadere a pezzi.
E il numero civico era proprio il 10. Finalmente ci siamo! Avvicinandomi ulteriormente al videocitofono cercai il nome del dottor Marsala che, volente o nolente, mi avrebbe al più presto liberato da quella tortura. Eccolo: dottor Attilio Marsala! Fremendo, un po' per ricordi non ancora sbiaditi di trapani in movimento e altre piacevolezze del genere, un po' per il dolore che sembrava intensificarsi, schiacciai il tasto del citofono aspettando con il cuore in gola che una voce mi rispondesse e mi invitasse a salire di sopra. Niente! Passato qualche secondo, riprovai a suonare un po' nervosamente: ancora nessuna risposta! Guardai l'orologio per vedere quanto tempo era passato dalla telefonata: appena venti minuti! Non avevo perso tempo, mi ero precipitata all'appuntamento con frenesia, altro che! E allora perché il dottor Marsala non mi rispondeva? Ricordavo benissimo che mi aveva detto di suonare il citofono, perché non c'era portineria. E allora?
Sempre più affannata mi addossai all'enorme portone di legno che, con mia sorpresa e con un sinistro cigolio, si aprì. Dall'interno proveniva un buio fitto e impenetrabile, ma anche un piacevole fresco. E adesso che faccio? Mi guardai nervosamente in giro, ma per tutto il perimetro della piazza non si vedeva una sola anima. Beh, sono arrivata fin qui e ho un regolare appuntamento: io entro, mi dissi. E spingendo ulteriormente l'enorme portone mi infilai.
Era stanco, sfinito da quella sequela interminabile di minuti che diventavano ore, che a loro volta diventavano mesi e poi anni e poi… Ma a che serviva torturarsi così? Non aveva senso cercare di star dietro al tempo traditore, che continuava a scorrere e lo lasciava lì, in attesa di qualcosa che forse non sarebbe mai avvenuto fino alla notte dei tempi, mentre dietro quel terribile muro la vita continuava, il giorno nasceva e poi trascolorava nella sera che infine si ammantava con l'arrivo della fulgida notte, adorna di stelle.
Le stelle, che desiderio aveva di affacciarsi a una finestra e ammirare ancora le stelle e il cielo vellutato e i fuochi d'artificio che solennizzavano la gioia di Palermo liberata dal giogo della tirannia. Così com'era avvenuto quella magica notte, mentre accanto a lui il sorriso dolcissimo di Maria Rita lo guardava come se fosse l'unico uomo sulla terra; e lui così si sentiva, forte, possente, invincibile, felice, come non avrebbe mai creduto. Quella notte il mondo era stato suo, ed era stato racchiuso tutto nel sorriso dolcissimo della sua donna, mentre ella gli diceva di attendere nel ventre una creatura sua. La felicità l'aveva reso imprudente, sconsiderato, una facile preda per quella serpe velenosa che aveva ottenuto una facile vittoria; e a quale terribile prezzo! Dov'era adesso Maria Rita e la sua creatura? Non avrebbe mai saputo più niente di loro, chiuso com'era in quella prigione dannata e inaccessibile, fuori per sempre dal mondo dei vivi.
Quasi casualmente il suo sguardo scivolò sullo scheletro che gli faceva compagnia ormai da tanto, troppo tempo, nel cunicolo accanto a lui. Si sentiva sdoppiato e continuava a dannarsi, a torturarsi, a pensare a quanto tempo era trascorso, quanto tempo…
All'improvviso un sorriso gli stirò i lineamenti deformati dall'agonia e finalmente seppe. Leggero come il vento si avvicinò all'invalicabile muro di mattoni che gli aveva per sempre sbarrato la strada dei vivi e lo oltrepassò, lasciando dietro di lui solo una leggera luminescenza, come quella dell'ultima nebbiolina che precede l'alba. Era giunto il momento. Il suo momento.
L'androne era buio e sapeva di muffa e di vecchio: nonostante il caldo esterno, rabbrividii mio malgrado; indubbiamente non era un ambiente accogliente. Non c'erano targhe o indicazioni di nessun tipo, l'unica cosa che si intravedeva nella penombra era una vecchia scala di marmo che mi affrettai a salire. Il rumore dei miei stessi passi rimbombava sinistramente nel silenzio più assoluto, mentre deglutivo e cercavo di scacciare dalla mia mente l'assurda idea di essere spiata da occhi invisibili… Uffa! Si trattava solo di una visita dal dentista; certo l'atmosfera non era delle più allegre, ma d'altro canto quel palazzo doveva avere due o trecento anni, e chissà quante ne aveva viste! Purtroppo non era facile tenere a freno la mia fantasia che aveva l'abitudine di scatenarsi alla prima occasione.
Finalmente ero arrivata al primo piano della costruzione e grazie a una finestrella che dava luce al pianerottolo potei leggere accanto ad una porta la targa: Dottor Attilio Marsala, medico dentista. Finalmente ero arrivata alla meta! Chissà perché lui non aveva risposto al citofono. Speravo solo che non se ne fosse andato senza aspettarmi, perché altrimenti… Beh? Che avrei fatto? Mi sarei messa a piangere, ecco cosa avrei fatto! Quel maledetto dente lanciava certe fitte!
Mi diressi risolutamente alla porta e, mentre stavo per bussare, mi accorsi che era aperta, beh, semiaperta: non c'era una cosa che andasse liscia, quel giorno. Prima il mal di denti, poi il portone socchiuso, poi la porta aperta… Certo, doveva essere uscito qualcuno che doveva avere parecchia fretta. Mi avvicinai ancora di più e feci capolino dal battente semiaperto: al di là della porta c'era una sala d'attesa arredata in modo convenzionale, con divani di finta pelle, tavolini di plastica e vetro e le solite riviste, vecchie probabilmente di un paio d'anni. Anche il disgustoso tanfo di disinfettante che permeava l'ambiente era purtroppo prevedibile.
Deglutendo nervosamente, spalancai la porta ed entrai nella sala d'attesa deserta. Il silenzio era quasi spettrale, non si udiva nessun suono, di nessun tipo. Avanzai nella stanza, cercando qualche segno di presenza umana, e nel contempo ammiravo gli affreschi che decoravano il soffitto del locale: scene di caccia di bucolica serenità, con gli immancabili puttini e amorini ai quattro angoli del soffitto. Cominciavo a stufarmi della situazione: possibile che non ci fosse davvero nessuno? Eh, no! Non aveva senso: perché lasciare la porta aperta, allora? Continuai ad avanzare risolutamente e contemporaneamente mi misi a chiamare: «Dottor Marsala? Sono la signora Ippoliti, si ricorda? Abbiamo un appuntamento».
Ma mi rispose solo il silenzio. L'unica cosa da fare era continuare il giro esplorativo, sperando di chiarire quello strano mistero. Mah, forse mistero era una parola troppo grossa comunque. Mi diressi verso l'unica porta in vista e, superata la soglia, mi ritrovai nello studio dentistico vero e proprio. In questo secondo locale, a parte gli affreschi di scene pastorali sul soffitto, sembrava tutto assolutamente regolare: file e file di armadietti metallici pieni di medicine, schedari a cassetti e, al centro della stanza, la gioia di ogni dentista e il terrore di ogni paziente: la poltrona-macchina di tortura con i vari trapani, il neon al di sopra e tutti i vari annessi e connessi che ne facevano un autentico strumento di terrore. La poltrona era girata rispetto alla porta d'entrata e il neon in quel momento era acceso. Quel particolare mi stupì, così mi ritrovai ad avvicinarmi ulteriormente per guardare meglio: la seconda cosa che mi colpì fu la vista di un paio di mocassini neri sulla pedana della poltrona e la terza fu la visione di una massa di capelli castani abbandonati sulla spalliera. Ma allora il dentista aveva un altro paziente! Ma dov'era lui in quel momento? Insomma che cosa era successo?
Cominciavo a scocciarmi seriamente: troppi enigmi per i miei gusti! Percorsi gli ultimi passi e mi ritrovai di fronte alla poltrona da dentista. La scena che mi trovai davanti continuava ad avere qualcosa di stonato: la faccia del paziente, un uomo sui quarant'anni, era di un color terreo davvero poco gradevole e i suoi occhi erano chiusi; inoltre i suoi lineamenti erano contorti in una maschera di dolore.
Mamma mia! Se quello riduceva i pazienti così, era meglio aspettare il ritorno dalle ferie del mio dentista! I secondi passavano lentissimi, ma non succedeva niente. Quello strano paziente continuava a non muoversi, a non respirare, e del medico nessuna traccia. Che si fosse addormentato? Ma con quei lineamenti contorti non si sarebbe detto proprio! Forse era sotto anestesia, ma anche così… era strano. Osservandolo più da vicino notai un'ulteriore stranezza: l'uomo stringeva nella mano destra un oggetto minuscolo che, a un esame più approfondito da parte mia, si rivelò un gemello d'oro con uno stemma di un falco, o roba del genere. Mah! Forse fu perché mi ero avvicinata ulteriormente per guardare il gemello che alla fine l'ovvia verità mi colpì come una mazzata: quell'uomo doveva essere morto!
Oddio! E adesso che faccio? Ero assolutamente impreparata a una situazione del genere, anzi per la precisione mi trovavo davanti al primo morto della mia vita. Certo che però qualcosa bisognava fare, non potevo certo restare a guardare per sempre quel poveretto. Chissà se era il dottor Marsala? Forse era stato colto da un malore improvviso e si era sdraiato sulla poltrona… Ma forse c'era ancora qualcosa da fare e io stavo lì a perdere tempo. Con raccapriccio mi avvicinai per tastargli il polso ma, nel panico assoluto che cominciava a sommergermi a ondate, di battito sentivo solo il mio, che rintronava nelle mie orecchie e saliva, saliva…
Santo cielo, sto per svenire! Mi affondai le unghie nel palmo delle mani per non perdere i sensi, non era proprio il momento adatto per fare l'eroina che non sopporta troppe emozioni! Ma appena lasciai il polso dello sconosciuto il gemello che aveva racchiuso nella mano cadde e rotolò ai miei piedi. Io lo raccolsi, completamente inebetita, quasi inconsapevole dei miei stessi movimenti e girandomi verso il muro mi sentii rizzare i capelli in testa, perché dal di là del muro stava materializzandosi una strana luminescenza, quasi una nebbiolina che si espandeva… Lasciai cadere la borsa e tutto il suo contenuto che si sparse per il pavimento, andando a far compagnia al gemello che mi era sfuggito insieme a tutto il resto.
Avevo il cuore in gola e non riuscivo a respirare, in preda com'ero a una paura paralizzante che non mi permetteva nessun movimento. Quando la nebbiolina si dissolse mi ritrovai davanti a un… a che cosa esattamente? Qualunque cosa fosse, aveva sembianze umane, sembrava di sesso maschile e portava una casacca rosso fuoco e degli strani pantaloni grigio ferro; il viso, che doveva essere stato bello, era stravolto dalla stessa maschera di agonia di quel poveretto dietro di me. Che cosa mi stava succedendo? Forse era il dolore al dente che mi stava facendo impazzire senza accorgermene?
Annaspai in cerca d'aria e provai a parlare, a dire qualcosa, qualunque cosa che spezzasse l'incantesimo che si era intessuto attorno a me, ma la strana apparizione mi precedette. Avvicinandosi mentre io non riuscivo a fare nessun movimento, mi chiese con tono pacato: «Perdonatemi, mia signora. Da quello che mi sembra di capire, anche se ciò mi appare molto strano, voi mi vedete. Posso chiedervi in che anno del Signore siamo?».
Era troppo per chiunque, perfino per me. Senza emettere un respiro, vidi le pareti venirmi incontro a folle velocità, sentii i puttini degli affreschi ridere sguaiatamente e poi il pavimento mi accolse a braccia aperte.